Venerdì 15 maggio, Conferenza su Re Carlo di Borbone

Carlo di Borbone.

Re Carlo salito al trono di Napoli nel 1734 è il solo monarca della Dinastia Borbone–Napoli di cui la storiografia ufficiale ne ha da sempre evidenziato i pregi e la particolare “’intelligenza illuminata”, esaltandone le iniziative. Nonostante ciò, occorre considerare che, purtroppo, anche questa “concessione” degli storici è viziata di numerose omissioni e distorsioni che, comunque, affievoliscono la notevole portata politica del suo governo.

La prima evidente distorsione è nel nome: Carlo di Borbone, primo re dell’era moderna delle Due Sicilie, viene sistematicamente indicato come “terzo”. In effetti egli diventò Carlo III solo quando, alla morte del fratellastro Ferdinando VI di Spagna, dopo aver affidato la Corona di Napoli al giovanissimo figlio Ferdinando, nel 1859 salì al trono di Spagna. Carlo III re di Spagna: corona che nulla aveva a che fare con il regno italico, considerata la rigorosa separazione dei due stati.

Questa inesattezza nella numerazione dinastica non è una innocente svista. In effetti tutto il castello risorgimentale del diciannovesimo secolo è stato costruito anche per negare la potestà di Nazione e, quindi, di legittimo Stato, al Regno delle Due Sicilie. Una distorsione, questa, necessaria innanzitutto per meglio giustificare le modalità con le quali il Regno fu poi nel 1861 annesso dal Piemonte e, quindi, per affievolire la gravità di un’aggressione militare che, considerate le premesse, non sarebbe avvenuta ai danni di uno stato libero ed indipendente, qual era legittimamente il Regno delle Due Sicilie, ma ad una “propaggine territoriale della Spagna governata da una dinastia straniera”.

Più gravi e fuorvianti appaiono poi le omissioni. I vari testi di storia scritti soprattutto appena dopo il 1861, in molti casi tendono ad elencare pedissequamente i vari ed evidenti interventi che il re operò con decisione nell’arte, sulle infrastrutture, nella cultura, nel sociale. Una elencazione che, però, viene sistematicamente estraniata dal contesto politico e strategico che Carlo, forte del suo formidabile “paternalismo illuminato”, avviò con successo e che i suoi successori portarono avanti con rigore e svilupparono nonostante i forti sconvolgimenti politici che in tutto l’arco temporale in cui governò la dinastia, caratterizzarono l’Europa e l’Italia.

Premesso che Carlo di Borbone non scacciò manu militari gli austriaci dalla parte meridionale della Penisola italiana in qualità di conquistatore, ma quale esecutore di un diritto dinastico proveniente dal genitore, egli trovò la popolazione di queste terre in una condizione economica e sociale miserrima. Lo Stato non esisteva più: le casse erano al collasso; l’amministrazione pubblica marcia e corrotta; i nobili feudatari commettevano soprusi e abusi di ogni genere; l’economia, totalmente assente, non riusciva a soddisfare i bisogni più elementari della gente; le vie di comunicazione erano malmesse e ridotte ai soli tracciati principali; gli scambi commerciali inesistenti; le città ed i porti in forte decadenza. Ciò mentre il resto dell’Europa si stava avviando ad una stagione di sviluppo che avrebbe visto la rivoluzione industriale ed il sorgere di nuove classi egemoni e nuove strategie economiche e commerciali.

Occorreva, in qualche modo, individuare un modello di rilancio che avesse consentito al Regno meridionale di recuperare in breve tempo il gap di sottosviluppo ed arretratezza, soprattutto economica, in cui il soffocante vicereame austriaco l’aveva ridotto. Ma la situazione politica ed economica internazionale, dominata dalle grandi potenze europee, non presentava spiragli incoraggianti di inserimento se non in una condizione di dipendenza paracoloniale. Carlo, dotato di un’intelligenza non comune e da un intuito interpersonale quasi portentoso, a pochi mesi dal suo insediamento a Napoli, circondatosi da tecnici tra i più importanti del tempo, già aveva un’idea chiara di come poter risollevare le sorti dell’antico Regno e ciò senza accettare compromessi con chi deteneva le leve dell’economia mondiale.

Egli pose alla base di tutta la sua strategia di ripresa due elementi portanti: la terra ed il popolo. Tutto il resto: commercio, artigianato, industrie, infrastrutture, sistema amministrativo, politica interna ed internazionale, arte, cultura doveva essere funzionale alla “terra e al popolo”. Così, mentre nel resto d’Europa gradualmente i vasti beni feudali transitavano anche in modo traumatico dall’aristocrazia alla borghesia più o meno nobile, nel Regno di Napoli e Sicilia tali beni passarono per ordine reale e loro malgrado dai feudatari ai contadini ex servi della gleba. Da questa coraggiosa operazione di politica economica è facile capire con chi e contro chi si schierò il giovane re.

La riforma prevedeva che chiunque del popolo, necessariamente nullatenente, poteva diventare “il conduttore” di un appezzamento di terra demaniale che restava di proprietà dello Stato e per il quale uso il contadino pagava l’annuale “decima” all’Erario. In altri termini i contadini, attraverso l’antico strumento dell’enfiteusi, diventarono “feudatari di se stessi”. In questo modo fu avviata una “economia di sussistenza basata sul principio dell’essenziale”. Esattamente l’opposto di quanto stava accadendo nei regimi liberali.

Nel giro di un decennio, unitamente ad una organica riforma sul dazio e sul commercio, l’economia subì un’accelerazione tale che nemmeno il più roseo dei pronostici l’avevano potuta prevedere. E’ in questa vera e propria rivoluzione “proto socialista” che vanno calate tutte le opere che Carlo di Borbone inaugurò non solo a Napoli.

In ogni angolo più remoto del regno era un pullulare di attività, un fermento che dalle campagne, una volta abbandonate, raggiunse le città e quindi la vita culturale, artistica, economica e politica dell’intero Stato. Ma la politica economica di questo Regno, in seguito definito con cattiveria “a negazione di Dio”, dove il “Dio” inteso dagli inglesi era il “capitale”, svincolata dalle banche e dalle strategie internazionali, era un pessimo esempio per chi, attraverso il controllo imperialista del mondo, decideva i destini economici e politici degli stati. Il sistema della “terra e popolo” che in una definizione successiva di matrice rivoluzionaria fu rielaborata in “terra al popolo”, aveva gettato le basi a quello che in seguito diventò il terzo stato d’Europa. Una posizione economica che, però, per essere compresa fino in fondo non può essere brutalmente comparata con le altre economie del tempo. Infatti, se ci si limita ad operare un rigido confronto numerico tra stati, così come ha fatto finora la storiografia ufficiale, sfugge la vera essenza di quella che fu una grande rivoluzione economica e sociale. Per avere un’idea immediata di che cosa si sta parlando, è sufficiente analizzare il motto che sintetizzò tale politica: ”Un po’ a tutti e non tutto a pochi”. Nello specifico, mentre le altre potenze avevano raggiunto i vertici dell’economia mondiale generando, anche all’interno dei propri stati, lo sfruttamento delle classi meno abbienti e paurose sacche di povertà con devastanti conflitti sociali, nel Regno dei Borbone, mettendo in essere le teorie del Cattolicesimo Sociale di Thomas More, fu imposta un’equa distribuzione e ridistribuzione delle risorse agricole, dei mezzi e della ricchezza. La borghesia esisteva, ma non aveva alcun potere politico-amministrativo, né alcuna egemonia; la nobiltà era limitata nelle sue proprietà ed in gran parte privata dei beni demaniali. Napoli, così come tutte le altre città del Regno, fino al 1861 non si trovò mai nella contrapposizione capitalistica “città- campagna”, ma fu il cuore di un eccezionale sistema agrario che trovava nella città la sede naturale ed il coordinamento politico-amministrativo di tutte le sue attività di gestione e complementari.

Alessandro Romano